lunedì 3 dicembre 2012

"Ti chiami Lupo Gentile" (2008) di Luisa Mattia


“-Ha preso più botte che mozzichi de pane...-
Il padre gli si avvicinò, 
sfiorò con le dita la fronte di Claudio, 
la guancia.
- So' bei lividi pure i tuoi, però...-
- Lui sta peggio.-
Aldo rise, di una risata larga, 
grassa, 
che finiva in una specie di singulto.
Gli occhi gli brillavano.
- Pischello, sei pischello ancora, 
però se a sedici anni
fai fuori uno come il Sorcio, 
prometti bene, a papà tuo!-”
(Luisa Mattia, Ti chiami Lupo Gentile, Rizzoli, pagg. 100-101)



Personaggi principali
  • Claudio: protagonista, sedici anni, piccolo delinquente dedito soprattutto a spaccio di droga e racket
  • Pino, detto IL SORCIO: altro giovane criminale locale, antagonista di Claudio
  • Mauro, detto ZAGAJA: ragazzo della banda del SORCIO, balbuziente
  • Radu, detto RAGNO: ragazzino di origine rumena, ladruncolo di appartamenti ed amico del protagonista
  • Rocco, detto PUZZETTA: altro ragazzino amico di Claudio
  • Simona, detta SIMO: ex fidanzata di Claudio
  • Verena: fidanzata del SORCIO
  • Aldo: padre di Claudio e gestore di parte del racket locale
  • Paulo: bambino piccolo, amico di Claudio e figlio di un commerciante che si oppone al racket
Ambientazione
  • Italia, Ostia (Roma)

Claudio si trova ad un bivio della propria vita di adolescente difficile. Oltre alle spigolosità della maturazione fisica e mentale, la sua quotidianità si trova minacciata da una velocità del crescere accelerata rispetto al normale a causa di una complessa situazione fatta di violenza e delinquenza.
Una società ristretta, affacciata sulla riva del mare ostiense, dove le regole della strada sono dettate da rapporti giocati sul ruolo imprescindibile della forza. Un luogo dove i nomi stessi svaporano nell'atmosfera accaldata, cedendo il passo ad una sonorizzazione costituita da soprannomi il cui senso deriva, certamente, da quell'antica necessità di designare le persone sulla base di etichette sociali, privando l'individuo dell'intera gamma delle sue peculiarità e calandolo nella dimensione piatta e creata ad arte per stabilire confini e tagliare fuori. RAGNO sarà, dunque, veloce a scavalcare muretti ed a correre su due gambette affusolate, mentre il SORCIO avrà una linea delle narici talmente delineata e secca da ricordare il muso allungato di un ratto.
Una spiaggia, ed una città dove la voce minaccia, le mani impugnano coltelli, le gambe si stringono attorno ai motori di scooter lanciati a tutta velocità. Il metro, con il quale i ragazzi che animano le pagine di questo romanzo misurano il mondo, si presenta quindi come una commistione di elementi il cui principio si riduce alla lotta, alla sopraffazione, al dominio.
Il protagonista intuisce una sorta di squilibrio permanente. Nonostante continui con spavalda competenza sulla via della micro-criminalità, la laboriosità negativa del padre, intento ad organizzare e mantenere traffici e circuiti di protezione a pagamento dei commencianti, e di altri giovani come il SORCIO, suggerisce al suo animo una sorta di inquietudine. La terribile spontaneità con la quale il genitore gestisce la manipolazione dell'umanità attorno e, soprattutto, l'ombra di quella violenza gratuita che affiora dalla tendenza a schiacciare i più indifesi, inizia ad istillare nel suo cuore un germe di incomprensione.
Ma il percorso non potrà mai essere immediato, ed il dolore è il vero collante dello spirito in grado di unire i pezzi di un'esistenza frantumatasi contro scogli aguzzi.

venerdì 30 novembre 2012

"La scelta" (2005) di Luisa Mattia


“- Allora, Pedro … -
- Non mi chiamare più Pedro. 
È nome che non va per uno come me. -
- E chi sei diventato? -
- Un uomo rispettabile, uno di don Salvo. -
- Davvero, Pedro? -
Gli arrivò uno schiaffo.
- Ti dissi appena ora 
che mi devi chiamare col nome mio, 
Pietro, - borbottò. 
- Che forse non ti piace? -
(Luisa Mattia, La scelta, Sinnos Edizioni, pag.40)






Personaggi principali
  • Antonio: protagonista, ragazzino che si sta avviando sulla strada della micro-criminalità nell'orbita mafiosa
  • Pietro (Pedro): fratello maggiore del protagonista, giovane già avviato nella pratica della delinquenza
  • Letizia: sorella di Antonio e Pietro
  • Madre dei ragazzi: casalinga vessata dalla violenza del primogenito e dalla situazione di omertà ed ignoranza vigente in ambito familiare e sociale
  • Padre dei ragazzi: disoccupato con problemi di alcolismo
  • Michele: marionettista girovago
  • Angelica: figlia di Michele. Aiuta il padre nell'attività di famiglia
  • Simone: amico di Antonio. Animatore nelle feste per bambini e piccolo punto di riferimento civile
  • Don Salvo: capo mafioso locale
Ambientazione
  • Italia, Sicilia, in una cittadina non specificata

Leggendo le pagine scritte da Luisa Mattia, si fa viva l'impressione della presenza di fili invisibili che, dall'alto, si agganciano ai vari personaggi, penetrandone la carne e guidandone le azioni sul piano sociale; in questa terra fondata sulla convenzione, sull'uso della violenza come coercizione e sull'ignoranza come base culturale, la lotta intestina fra questo stato di costrizione e la spinta a liberarsi dai lacci emotivi, che ancorano ad un ruolo preciso ed alienante, deflagra nell'intimità fino a colmare tutto lo spazio della riflessione personale. All'esterno, però, c'è paura e silenzio.
La scelta è, esattamente, il punto di rottura con una visione univoca di una tradizione che genera bestialità e barbarie. È la dolorosa e coraggiosa presa di coscienza che i cavi immersi nel proprio corpo devono, in qualche maniera, essere spezzati.
Ma veniamo direttamente al punto.

Antonio cresce all'interno di un contesto dove il diventare più adulto è un obbligo fatto di lacrime e subordinazione. Se è vero che esempi ed esperienze sono passo fondamentale per affinare il carattere, la vita che il giovane sperimenta offre solo spunti di prevaricazione e rabbia animalesca. Nella sua famiglia, l'ombra di un padre pressochè assente per inadeguatezza nel ruolo genitoriale viene schiacciata sotto il peso di un'incontrastata figura fraterna, la quale attraversa l'ambito domestico nel pieno di un virgulto adolescenziale/sessuale e nel totale dominio fondato su minaccia e percossa; Pietro sostituisce il genitore alcolizzato e ridotto ad un pallido simulacro d'uomo, superando le stesse barriere di rispetto verso le sfere materna e paterna e scagliandosi verso di esse utilizzando, da un lato, il meccanismo della rimozione della funzione del padre, mentre dall'altro, occupando il posto vacante nel binomio genitoriale e relazionandosi, con la madre ed i fratelli, secondo una sorta di investitura coniugale caratterizzata da quella prepotenza archetipa ed epica venuta meno dalla dipartita del ruolo paterno. Ciò, a mio parere, diventa esplicito fin dalla prima pagina del romanzo dove, seduto su una sedia nella propria camera e distante dalle incombenze di un normale andamento domestico, beve caffé come lo bevono gli uomini (pag.7) e fuma, incurante della fatica sopportata dalla madre nel tentativo di mantenere ordine nell'appartamento. La sua indifferenza, tramutandosi spesso in irritazione a causa degli innesti di individualità che provano ad introdursi fra le pieghe di quella violenta onnipresenza, come il pianto del fratellino Enzo oppure lo spazio per le telenovelas ritagliatosi dalla sorella Letizia, fa di lui il lupo feroce che domina il branco, ed inserisce nel suo ruolo di collante sociale un elemento maligno ed inquietante, soprattutto perché avallato da una non scritta ragione sociale che indora una becera forza maschilista come metro per il retto funzionamento del nucleo.
Antonio guarda al fratello con l'occhio di chi si riflette in un modello, cadendo in un'operazione frequente nell'infanzia e nella pre-adoloscenza ma scegliendo un fine che, terribilmente, risiede al di fuori di sé. Pietro è la forza, è la potenza che ordina il mondo. La sua autorità è incontrastata: nell'accesso al denaro, reperito attraverso pizzo e spaccio visti nell'ottica di azioni per le quali è necessario avere coraggio e padronanza; nell'accesso alla femmina, presa con brutalità, violata con l'impeto di una bestia in cerca di accoppiamento anche se si tratta solamente di baci, ma baci che trasmettono innegabilmente tutto l'ardore della pratica naturale dell'imposizione; nel possesso dei beni, ostesi come oggetti sacrali che identificano e separano nettamente i gradi gerarchici di questo comando.

giovedì 22 novembre 2012

"Il Grande Albero di Case Basse" (2012) di Luisa Mattia


"Quel che c'è da dire è che, appena fuori dal cancello,
c'era un prato e in mezzo al prato c'era il GRANDE ALBERO.
Solo un albero. E poi niente.
Un albero.
Grande.
Vecchio.
Stava lì da non si sa quanto.
Stava lì da prima che costruissero i palazzi.
E i palazzi stavano lì da quando i vecchi erano giovani,
 anzi bambini.
Un tempo che se lo volevi contare non sarebbero bastate
tutte le dita di tutte le mani dei bambini e delle bambine.
- Un'eternità -, aveva detto Sofia. - E' un'eternità 
che l'albero sta qui. -"
(Luisa Mattia, Il Grande Albero di Case Basse, il castoro edizioni, pagg.9-10)



Personaggi principali
  • Sofia, Wilson, Gioconda, Suleiman: bambini della frazione di Case Basse
  • Kosè: cagnolino dei bambini
  • Genitori dei bambini
  • LUI: imprenditore e proprietario dell'azienda che vuole estirpare il Grande Albero dalla sua sede in mezzo al cortile di Case Basse
  • QUEGLI ALTRI: personaggi desoggettivati impiegati presso l'azienda

Ambientazione
  • Località geograficamente imprecisata denominata come “Case Basse”

Il meccanismo poetico su cui si costruisce il volume di Luisa Mattia funziona sulla base di una linea lungo la quale le differenze dei vari personaggi si accostano, le une alle altre, generando una visione quanto mai completa del mondo umano, come un microcosmo sociale nel quale l'apporto del singolo si sposa con un concerto di tendenze culturali dando origine ad una felice e costruttiva solidarietà. “Case Basse” non è sostanzialmente nulla al di là di questa correlazione. Gli edifici sono una parentesi che, da un punto di vista geografico, non significano niente. Questo agglomerato di dimore sfugge dalla centralità degli elementi narrativi e si costituisce, più che altro, come un insieme caratterizzato dal senso di affetto e partecipazione sviluppato dagli abitanti, dai bambini con la loro vitalità, dagli adulti con il calore e la speranza di un'esistenza migliore o la schiettezza di una vita semplice e vera, dal cagnolino Kosè con l'energia di una dimora fatta di coccole, gioco e pipì sui tronchi. La materialità dell'architettura si sfuma, quindi, assumendo sostanza dalla coabitazione di uno sparuto groppuscolo di individui provenienti da diverse parti del globo e lì confluiti per costruire un angolo di mondo dove sperimentare pace e serenità come un'autentica ed utopica comunità senza steccati e pregiudizi.
Simbolo di questa unione, il “Grande Albero” che sorge al centro di un cortile, sui cui rami i ragazzini si avventurano, relazionandosi con l'ambito tangibile di una creatura la cui età si confonde con l'infinito, emanato da un numero impreciso di anni capace di oltrepassare la memoria della collettività. Staccato dalla terra, diviene trampolino per l'immaginazione, mentre sotto di esso i fanciulli scoprono la frescura dell'ombra, e la dimensione del gioco sembra essere protetta dalla maestosità e dalla maestà di quel vecchio che, come un nonno affettuoso e depositario di un potere naturale fatto di saggezza e divinità, cinge tutti in un abbraccio che rassicura gli animi.
La forte idea dell'internazionalità e della multi-etnicità caratterizza, di fatto, l'esistenza di questa minuscola società, la quale si sorregge sulla compassione e sulla pietas che scorre per il sistema linfatico sociale rappresentato dai rami dell'albero e, nella precarietà di una vita spesso stentata, si carica di coraggio attraverso la saggezza storica elaborata dalla tradizione dei popoli che ne compongono le diverse sfaccettature. Così, papà Aimé, africano, mantiene la famiglia vendendo libri “d'Affrica” per la strada nonostante sia laureato in ingegneria, sorridendo all'arrivo di un nuovo figlio con la passione di chi, alla vita, non sa dire di no e la ritiene di tale importanza da decantarla in canzoni nuove. Oppure il portiere Mario, che abita in una guardiola piccolissima ma nella quale, stando a ciò che afferma, non gli manca nulla.

mercoledì 7 novembre 2012

"¿Hasta donde...?". Coreografia: Sharon Fridman


La piccola coreografia di Sharon Fridman è un gioiellino di metamorfosi del corpo. ¿Hasta donde? … fino a quando, ci si può domandare, le masse dei due danzatori saranno capaci di restare separate e indipendenti? Fino a quale istante mani e piedi non troveranno una via per costituire un percorso comune che coinvolgerà equilibri e squilibri?

Due uomini, dicevamo, che in uno spazio ristretto generano in un moto apparentemente perpetuo e frenetico l'energia per trascinarsi reciprocamente, incalzando pubblico e scena. Una corsa alla crescita, alla maturazione, partendo da una manciata di intenzioni che costituisce l'incipit dell'opera, dove un inizio stentato e forse un po' spigoloso stabilisce una separazione iniziale che, a poco a poco, si fa sempre più labile, avvicinando le nature degli interpreti proprio attraverso la perdita di senso del monismo originale.

Un individuo si fa, in principio, portatore di un'organizzazione del pensiero e della forma, mentre l'altro si sobbarca l'onere del divenire, innocuo ed infantile homunculus costituto perlopiù da impulsi simili a quelli di un animale appena venuto al mondo. In questo mare vacuo dove solo il legno del palcoscenico si articola regolarmente sotto le luci di un magma cromatico e di una ripercussione sonora impregnata di versi di bestie e rumori graffianti ed abissali, il primo interprete porta in scena fisicamente il corpo dell'altro, scaricandolo e scontrandosi con la terribile magia dell'esistenza primordiale, quella di un bambino ignaro del mondo e delle sue regole, osservando a distanza le mosse di una volontà che necessita di una guida, di un sostegno nell'affrontare le tenebre con occhio impaurito e con movimento inadeguato. Pesanti cadute, allunghi, piroette, tutto condito da una drammatica inconsistenza, che blandisce qui e là un appiglio, e da un'energia disperata che proietta in ogni angolo una commovente potenza del desiderio di vivere.

Mentre i tentativi di questa materia informe si attivano per contrastare la catalessi della propria ragione, ecco che, dopo un prologo d'ombra, l'intervento dell'altro irrompe discretamente, afferrando un braccio, introducendo un piede in uno spazio lasciato libero, ponendosi da bilancia e comportandosi, insomma, da puntello su cui i movimenti generali ispessiscono sicurezza ed il vigore assume una logica più funzionale.

lunedì 5 novembre 2012

"La casa del guardacoste" (2001) di Franco Iannelli

“- Chi pianta un albero resta nella memoria, - disse ridendo Shunkin. Bruno si è seduto accanto alla palma. Ha appoggiato il viso su una mano e sembra che stia pensando. Anche lui tende sempre a sorridere, mentre parla: - Il tempo ci dovrebbe dare più chance. Non vi pare? Ci dovrebbe essere sempre la possibilità di vederle tutte le cose che si vogliono vedere e amare. Dovremmo avere anche il tempo di recuperare quello che abbiamo fatto male. E invece questa palma, questo mio piccolo amore, cresce così lentamente, in modo impercettibile. Mi sembra una lumaca che deve attraversare il deserto. -
- È tutto nella tua mente, - disse Shunkin. - Il tempo è tutto lì, guarda come può essere diverso. Il tempo della tua vita è veloce, quello della tua palma è lento. Ma è tutto lì, in quella tua testa. Fuori invece è sempre lo stesso, per ogni cosa. -”
(Franco Iannelli, La casa del guardacoste, Gallo&Calzati Editori, pag. 118)



Personaggi principali
  • Gianni: protagonista
  • Bruno: fratello maggiore di Gianni
  • Valeria: amica ed ex-fidanzata di Bruno
  • Roberto: amico di Bruno e suo compagno nel viaggio in Afghanistan
  • Alberto: altro amico di Bruno
  • Madre e padre dei due fratelli
Ambientazione
  • Italia (anni novanta)
  • Terracina
  • Bologna
  • Sicilia

Per qualche ragione non chiaramente identificabile e che alcuni insistono a definire con l'appellativo di caso, alle volte ci si imbatte in opere che colmano i momenti destinati alla lettura, od all'ascolto, od alla visione, di una pregnanza di significato da riuscire non solo a rendere unico il tempo utilizzato, ma soprattutto a costruire attorno al fruitore una sorta di recinto entro il quale il rapporto con la narrazione radicalizza lo scambio fino a stabilire una sorta di legame che penetra la barriera dell'intimo. Questo è esattamente il caso dell'opera intitolata “La casa del guardacoste”.
Prendendo in mano il volume ci si può accorgere immediatamente della mediocre qualità dell'edizione; errori vistosi nell'impaginazione, una copertina organizzata apparentemente con disattenzione, facendo uso di caratteri decisamente brutti in un contesto che avrebbe meritato ben altro. Una quarta di copertina dove, a mo' di stralcio esplicativo, viene pressoché accatastato un brano della prefazione del poeta Roberto Roversi, sfregiata proprio nel mezzo da un'illustrazione in toni di grigio; disegno di per sé grazioso, certamente, ma che collocato in quella posizione disarticola graficamente il già precario stato delle parole che paiono quasi incapaci di rimanere accostate le une alle altre.
Una veste grafica criticabile, insomma.
Per contraltare, la lettura del romanzo suggerisce una solida verità: quella storia dovrebbe comparire in una collana di alto riguardo e di ampia tiratura, racchiusa nell'edizione di qualche casa editrice dal nome importante i cui libri figurano sugli scaffali di tutte le librerie. Il fatto che ciò non avvenga denota solo la triste possibilità che queste aziende ogni tanto falliscano nel proprio dovere.

La memoria, che segue un filo rosso ed unisce in una ricerca esistenziale due fratelli ed i mondi che questi si portano dentro. Un giovane si avventura al di fuori della sua quotidianità fatta di videogiochi e poco studio per recuperare le tracce di un altro uomo, più anziano, di un fratello perso nel mondo a causa di vicissitudini che il ragazzo ignora, colto come è nella piattezza di una neutralità ideale e di coscienza. Il riflesso di quell'altro giunge tramite un diario, unica testimonianza di un passato che ha portato lo scomparso in una terra lontana, l'Afghanistan; scritti in cui l'ombra dell'uomo si ispessisce provando sentimenti, desideri, dove il sole di un deserto abbagliante scorre sulle pupille fino ad irrorare calore e luce dalla carta, accendendo un bagliore di curiosità nell'animo dell'altro il quale, scorrendo con le dita sulle parole vergate, può sentire sotto ai polpastrelli nuovamente il corpo del parente ma reso mistico da una letteratura che sostituisce la carne e vivifica le idee.

mercoledì 31 ottobre 2012

"Stasera arsenico!" di Carlo Terron. Rappresentazione teatrale: Guido Ferrarini, Alida Piersanti. Regia: Mario Mattia Giorgetti


Lorenzo e Bice, due nomi che suonano all'intelletto un po' datati e consunti dal tempo; marito e moglie, incorniciati fra le assi di un quadro a tinte fosche e vermiglie, incarnano prima di tutto la logica di un gioco perverso che avvinghia l'essenza della loro vita matrimoniale immergendo il livello di relazione affettiva, sessuale e conviviale, fra le spire di un complesso rituale erotico-pruriginoso alla ricerca di un'eccitazione che stenta a sollevarsi senza artifici, anche fra i risvolti inquietanti della violenza, della sopraffazione, della morte.

Entrambi impresari funebri, nonché dotati di un occhio cinico e disincantato sulla morte tanto da discuterne in termini affaristici e di bilancio, i protagonisti conducono la propria esistenza in una dimora dove il mobilio si conforma idealmente sul modello delle casse per i defunti, proiezione più che altro della valenza della loro intesa sessuale che una prolungata astinenza per motivi fisiologici del marito ha trasformato in un gioco sterile come un cadavere ma, comunque, morboso, triviale e tortuosamente proiettato alla volta della situazione magica in grado di scatenare il desiderio erettivo. La dipartita inguinale dell'uomo si contrappone ad un'eccessiva carica ninfomane da parte della donna che, nell'attuazione di una manovra che possa titillare le fantasie, non disdegna la pesantezza dell'insulto, l'ipotesi dello stupro, la minaccia verosimile del soccombere sotto l'azione di una qualche sostanza che avveleni il corpo e ne tragga lentamente la vita.
Il sesso si sposa con la morte, quindi, in un miscuglio che attraversa tutto il palcoscenico, tratteggiando i mobili, ispessendo l'illuminazione, relegando l'apparato cromatico al connubio fra rosso e nero e coinvolgendo così passione e tenebra in una carola che leviga i confini dei danzatori confondendone le mani, i piedi, i corpi, trascinando in questo turbine ogni oggetto presente nella stanza come se il punto focale, rappresentato dall'incontro-scontro tra i due coniugi, sia il cuore dirompente di un'energia che assomiglia fortemente ad un'agonia.

sabato 27 ottobre 2012

"La piccola ombra" (2002) di Banana Yoshimoto

"Vidi mio marito che si era infilato sotto le coperte al mio fianco 
e si accingeva a dormire.
[...] Pensai alle pieghe del suo collo, 
alle unghie corte della mano che aveva fuori dalle lenzuola,
all'attaccatura dei capelli vicino all'orecchio [...],
alle linee robuste della sua schiena squadrata.
[...] Se anche fossi morta in quel giorno, 
lui avrebbe continuato a vivere nell'appartamento 
in cui avevamo abitato insieme. 
In quel soggiorno intriso in ogni angolo della mia presenza, 
avrebbe preparato il caffè ogni mattina.
[...] Se anche io non ci fossi più stata,
se anche una sola parola 
non fosse più stata proferita, [...]
lui avrebbe continuato a preparare il suo ottimo caffè [...]."
(Banana Yoshimoto, La piccola ombra, Feltrinelli, pag. 38)  
Personaggi principali
  • Differenti personaggi prevalentemente di origine giapponese, alcuni senza nomi specifici
Ambientazione
  • Argentina, Buenos Aires (e dintorni), ai nostri giorni
  • Giappone, Tōkyō

L'incontro con la morte non è mai un evento da gestire con facilità. L'illusione che l'essere umano tenta spesso di costruire di fronte agli occhi nasce dall'esigenza di mascherare l'inaccettabilità di un accadimento che, nella sua complessità, scosta l'andirivieni del quotidiano con un'invadenza talmente radicale da causare certamente una momentanea rottura, per l'appunto, con l'usuale.
Come spesso accade per i personaggi tracciati da Banana Yoshimoto, anche in questa serie di racconti le persone si confrontano con l'idea della morte, e prevalentemente con una sorta di abbandono di sé nel gorgo delle particolari vicissitudini dell'esistenza nelle quali la defezione causata dalla dipartita stringe un cappio serico attorno all'addome, sfiorando la pelle con una carezza inquietante.

La terra di Argentina ed il calore di Buenos Aires fanno da sfondo alle vicende narrate, con quelle vie irrorate dal sole e dai passanti, da una energia che attraversa il giorno e la notte con una potenza in grado di dilatarsi e contrarsi, avvolgendo i protagonisti pur rimanendo costantemente fissi nella riproduzione di un'identità che funge da icona, stabile e significativa ma indipendente dagli stati d'animo particolari. Una massa pressoché bi-dimensionale sulla quale le azioni ed i pensieri si riflettono come punti focali marginalizzando l'arredo urbano e relegandolo in una sorta di scrigno dove, eventualmente, reperire solo piccoli ragguagli dei motivi di disagio provati.

La morte arriva e si insinua fra gli obblighi della giornata, entrando nell'agenda degli impegni senza essere prevista ed aggiungendo un invito al ricordo, alla preghiera, alla rivalutazione di alcune sintesi fatte proprie nei rapporti con persone lontane e vicine, con il rispettivo mestiere. L'eleganza e la delicatezza della scrittura di Banana Yoshimoto ci introduce nel mistero di una relazione con l'aspetto funebre concepito nei termini di frangente naturale dell'esistenza, di sfaccettatura della vita da accogliere però come fonte di squilibrio momentaneo. I personaggi a due dimensioni, simili alle antiche stampe cinesi e giapponesi, passano sulla scena totalmente composti da pensiero e sentimento, ed i loro corpi quasi si sfumano in questa transazione disperdendosi in un alone che regge l'intero apparato emotivo; sui visi, un'espressione che in genere non muta si distorce solo per generare relazioni simboliche con l'evento scatenante, come del sangue colato dal naso durante l'intensità di un'orazione in memoria di un defunto e l'idea del corpo dilaniato di quel morto dopo un incidente automobilistico, oppure il parallelismo tra l'architettura delle tombe di un cimitero visitato e le dimensioni di un'istallazione artistica, a forma di abitazione in miniatura, visitata anni prima con la madre uccisa da un male incurabile, o ancora la morte di un figlio per aborto spontaneo legata alla solidità in crisi di un matrimonio che riponeva proprio in quella nuova nascita l'ipotesi di una rinnovata stabilità.

mercoledì 24 ottobre 2012

"La Fondazione" (2008) di Raffaello Baldini. Rappresentazione teatrale: Ivano Marescotti (2012). Regia: Valerio Binasco

Credere che l'opera di Raffaello Baldini si possa catalogare nella categoria del comico piuttosto che in quella del drammatico funge da grossolana riduzione del suo contenuto valoriale. “La Fondazione” è, pienamente, una rappresentazione funebre, durante la quale viene messa in scena l'ombra della decadenza e l'amara rassegnazione ad una scomparsa irrisolvibile. Dietro all'apparato di battute ed osservazioni tragicomiche, coadiuvate da quel linguaggio dialettale (romagnolo) sempre pronto a spronare la comunicazione ad essenzializzarsi ed a precisare ciò che la lingua italiana lascia generico, fa capolino la fine di un'era, entra in crisi la preudo-solidità di una forma della mente che, fino a quel momento, ha retto le sorti mediocri della vita del protagonista.

Visionando lo spettacolo, la prima intuizione che colpisce a fondo è, indubbiamente, la solitudine disperatamente negata e scansata di una stanza vuota colma di una vacuità ambivalente, la quale mostra, con la delicatezza di un simbolismo scarno e terribile, la moltitudine di cianfrusaglie assiepate attorno al personaggio che si muove sulla scena.
Un individuo, solo al di là della ribalta. Un uomo dei nostri giorni ma, al contempo, senza una collocazione cronologica precisa, si aggira per il legno del palcoscenico su cui prende forma l'abitazione di questi, luogo ameno, calato sulla bilancia dell'indeterminatezza tra il nuovo e l'obsoleto così da permettere, attraverso l'utilizzo di un vuoto ordinato sulla base di logiche cromatiche e sonore perfettamente architettate e concertate, il gioco rituale di una totale discrasia con il mondo, obbligando lo spettatore a concentrare attenzione e cuore su quest'altro universo che si racchiude nei confini della camera, confini idealmente infranti da una serie di aperture-porte che permettono alla scena di prolungare colore, voce, rumore e pensieri verso un esterno che si mantiene comunque lontano, agente estraneo di una mentalità in grado di sottarre spazio vitale al guscio protettivo generatosi, negli anni, fra quelle mura.

martedì 23 ottobre 2012

"Ad ogni nuova stagione" (2012) di Michele Ottoveggio

"Mentre gli altri discorrevano e crocchiavano fra i denti prelibatezze, si ritrasse dalla sedia lentamente, aggirando alle spalle i commensali e portandosi fino alla finestra, incuriosito. Sorvolando con lo sguardo sui tetti, si portò affascinato e un po' spaventato fino all'acqua [...]. Assorto, non si accorse di come alle spalle lo stesse raggiungendo il figlio più grande della coppia di amici, un bambino della sua stessa età, il quale lo fece sobbalzare quando gli pose la mano sulla spalla per richiamare su di sé l'impegno dell'altro fanciullo; ed ora era lì, accanto al Marchesi, con un'espressione da gatto in difesa, fermo ad osservare sodo, anche lui, le cose là fuori. Poi, alzando un braccio, indicò al compagno le strisce di tenebra che attraversavano sfasate le acque, e disse, con un fare di esperienza e rassegnazione singolare per un ometto dei suoi anni, alcune parole che fecero una strana impressione al nostro, ma che all'epoca non capì bene; aveva l'abitudine di gettare sassi ogni tanto in quelle fenditure, per gioco, ma a differenza che nelle altre zone, essi si perdevano e non era possibile guardare, anche nell'acqua bassa, 
i tragitti discendenti delle pietruzze verso il fondale ghiaioso.
Il buio, concluse con candore, portava via le cose, e non le restituiva più."
(Michele Ottoveggio, Ad ogni nuova stagione, pag.92)
Personaggi principali
  • Giulio Marchesi : protagonista, impiegato d'ufficio presso un'azienda
  • Anna Marchesi : moglie del protagonista
  • Raffaele Lelli : collega del Marchesi
  • Guido Mori : archivista, altro collega del Marchesi
  • Malacchi : capoufficio del protagonista
Ambientazione
  • La vicenda si svolge in una città qualsiasi ed in un tempo non specificato. Comunque, i tratti urbani sono riconoscibili in alcuni ambiti della città di Bologna.

Credere che in questo libro vengano narrati eventi dai quali attendersi sorpresa e pathos è un inganno dal quale ben guardarsi. Fra le pagine che seguiranno, non ci si aspetti di trovare fatti con principio e fine ben delineati, o avventure entusiasmanti, o meglio ancora combattimenti, massime sagge ed universali, epiche bevute e crolli di imperi.
Eppure, nella sua semplicità, un mondo intero va disgregandosi, perdendo stabilità sulle deboli colonne che ne hanno sostenuto il peso durante gli anni.
Questo è un romanzo di inganni, un tentativo di recepire la presenza di una strada diversa in mezzo alle sterpaglie che una vita piatta e negativamente usuale sa imporre sulle speranze dell'uomo. Un romanzo di bugie, dicevamo, un racconto in cui la figura più innocua per antonomasia, quella dell'impiegato, si lega piano piano ad una coscienza maggiore, attraversando, nel silenzio e nello strepito muto di un grido senza suoni, il collasso della propria ragione occupazionale ed emotiva, nonché l'ipotesi di una riqualificazione più autonoma partendo esattamente dalle macerie di quel suo cosmo ristretto e già di per sé segretamente pernicioso.
L'argomento trattato nel testo verte fondamentalmente su problematiche connesse all'etica del lavoro ed alla libertà umana, lette però attraverso la lente d'ingrandimento di una narrazione con tratti di analisi filosofica, teologica e demonologica, in particolar modo dando ampio spazio al rapporto tra la quotidianità delle piccole cose ed un male di vivere i cui percorsi stentano ad essere compresi appieno, soprattutto laddove le esigenze del male, altro tratto distintivo dell'argomentazione, coinvolgono le prese di posizione dei vari personaggi proiettandole in un'orizzonte alle volte indecifrabile, alle volte troppo prevedibile.
Il protagonista, Giulio Marchesi, e coloro che lo circondano, si confronteranno con i residui di una vita vissuta all'insegna della dimenticanza di sé, del compromesso, e proprio da questo processo si svilupperà una sorta di presa di parte che verrà recepita in gradi differenti.
Durante un periodo di otto giorni, coincidente con l'ultima settimana di lavoro del personaggio principale prima del pensionamento (più un giorno culminante di reazione e sintesi), crescerà in lui una sensibilità rinnovata, abbandonata dopo la giovinezza, relativamente alla propria vita ed alle sue peculiarità che, a causa di diverse scelte, vennero accantonate e sostituite con una mediocrità impiegatizia. L'azienda presso la quale il protagonista è occupato comincerà ad essere percepita come un organismo vivo e vorace, nascosto dietro ai paraventi di una rispettabilità e tutela giuridica, di una solidità economica, costituita però da una neutralità morale che si riflette anche sul piano estetico. Marchesi intuisce un cambiamento, come se una forza esterna lo avesse voluto mettere a conoscenza di segreti mostrando il volto autentico della negatività presente fra quelle mura, estrapolandole dalla loro evanescenza e portandole ad un livello più tangibile attraverso la manifestazione di forme ed individui deformi, di influenze più o meno coatte, di rituali distruttivi come la conservazione per lungo tempo di documenti con il solo scopo apparente di perseverare nella loro distruzione.

sabato 20 ottobre 2012

"Professione poliziotto" (1978) di Carlo Castellaneta

La vista di quello sconosciuto che si era tolto la vita con un cappio al collo,
quel viso dai capelli bianchi stravolto in una smorfia di dolore,
lo offendeva.
Come se Franco fosse anch'egli in qualche modo responsabile.
Lui e tutto il resto della città sprofondata nel sonno.
A che serviva catturare un ladro, se non si riusciva a salvare la vita di un uomo onesto?
Che senso aveva il suo mestiere di poliziotto,
di tutore dell'ordine,
se non era possibile impedire il disordine più grande provocato dal bisogno?”

(Castellaneta Carlo, Professione poliziotto, Salani, pag. 112)







Personaggi principali
  • Francesco De Roberto : giovane agente di polizia
  • Beppe Spatola : agente di polizia e miglior amico di Francesco
  • Irene : infermiera e fidanzata di Francesco
  • Nicola : fratello di Francesco
Ambientazione
  • Italia, Milano, fine anni '70
  • Italia, Lucera (FG)

La vita letteraria così prolifica di Carlo Castellaneta, pur avendo regalato al suo pubblico di lettori opere ben più proficue da un punto di vista narrativo e concettuale, non nasconde un'ennesima parentesi di amarezza che si manifesta in modo interessante fra le pagine di questo romanzo.
La città, in primo luogo, quella Milano di fine anni settanta, nella quale si articolano i frammenti di vita dei personaggi, viene delineata nelle sue caratteristiche essenziali come una presenza statica e lontana, immersa in quella tipica atmosfera che tanto il cinema di quegli anni ha voluto mantenere al contempo di sfondo ed in primo piano, quasi a raffrontare ad essa una sorta di svuotamento dello spirito relazionale e dialettico delle persone. Un agglomerato urbano, dunque, minato da un calore estivo asfissiante oppure da un freddo che paralizza i movimenti, un gelo diffuso dalla pioggia sottile e tagliente di un autunno all'apice della sua portata che colma i dintorni della condensa del fiato, fra distese di periferia punteggiata da caseggiati popolari e magazzini confusi nella notte, zone erbose ancora non soppresse dal sopravvento edilizio e locali notturni frequentati da una malavita di antica e recente evoluzione, alle volte confusa nei cortei studenteschi ed operai che variegavano la vita sociale e politica cittadina di quegli anni.

Un giovane poliziotto, fresco di corso; una guardia fra le tante che porta per nome un diminutivo, Franco, più immediato rispetto a Francesco, e per cognome un De Roberto che proviene dal sud d'Italia, da una Puglia ferma nel tempo, da una città come quella di Lucera descritta dal protagonista stesso come in decadenza, le cui pietre nobili e solenni mostravano soltanto il riflesso di sé stesse e dove un'architettura incontrollata di speculazione aveva già provveduto a minacciarne l'integrità con costruzioni incomplete ed anonime. Un ragazzo vestito dalla divisa blu, di stanza presso il Raggruppamento di pubblica sicurezza insieme ad una moltitudine di colleghi, fuggito in fondo da una situazione di precarietà e buttato in un mondo come quello dell'ordine pubblico povero ed insufficiente di mezzi, nel quale il lavoro si connoterà sostanzialmente di attività che lo frustreranno, che lo tradiranno nei principi, che lo annoieranno, lui che desidera ardentemente una vera vita da poliziotto, sulla strada, con il mitra imbracciato, intento a controllare e vigilare, a seguire movimenti sospetti e raggranellare opportunità di promozione con operazioni al limite di una spettacolarità all'italiana. In lui si apre l'eco della celebre invettiva pasoliniana che dava sfogo alla voce di una generazione di meridionali, dimenticati dalle istituzioni, e che nelle piazze si trovava sul fronte opposto rispetto a quello animato da una schiatta di borghesia che, a differenza della prima, poteva contare largamente sull'apporto economico per gli studi, disertati in funzione di una ribellione dettata, talune volte, dalla noia dell'abbienza; e mentre quella presenza schernita dai dimostranti, colpita da monetine, bulloni e da insulti legati alla sua provenienza popolare e povera, assumeva su di sé la connotazione di una struttura topica che avrebbe partecipato alla realizzazione di quel rito di piazza che si sarebbe imposto come modello radicale di scontro sociale, come specchio del paese più che meramente poliziesco.

giovedì 18 ottobre 2012

"Il gioco di Boris" (2006) di Serge Joncour

 "Fu in quel momento che senza chiedere niente a nessuno
Boris prese una sedia e si sedette. Riabbassò per un istante gli occhiali,
Julie si vide in un riflesso, un'immagine che l'attraversò come uno sconcerto,
si scoprì inebetita, subito si riprese. Quella sicurezza, quel modo di non chiedere,
la mancanza totale di adesione al suo piccolo gioco le piacevano,
la emozionava che un uomo possedesse quel genere di impertinenza.
Assaporava già il godimento sottile, la vittoria di riuscire a destabilizzare quel tipo,
di metterlo a disagio in un modo o nell'altro.”

(Joncour Serge, Il gioco di Boris, Fazi Ed., 2006, pag. 14)


Personaggi principali
  • Boris :  affascinante ed ambiguo conoscente di Philip, figlio di una ricca famiglia produttrice di vino
  • Philip : rampollo di possidenti terrieri, distante dagli interessi della famiglia e con precedenti penali
  • André-Pierre : cognato di Philip
  • Julie : sorella minore di Philip
  • Vanessa : altra sorella di Philip, sposata con André-Pierre
  • Padre e madre di Philip
  • I due figli di André-Pierre e Vanessa
Ambientazione
  • Francia (Bretagna) - Isola di Brehat – al nostro tempo

Il romanzo di Serge Joncour discorre a proposito di dèmoni, dèmoni che sovrintendono la persistenza della violenza legata alla sopraffazione, al controllo, ad una mimesi che destruttura l'identità dell'uomo mutandolo in un'evidente appendice della fonte da cui trae nuova ragione. E questa ragione, questa motivazione che si sostituisce alla libera iniziativa come programma fondamentale dell'esistenza, si sporca di una ritrosia del vivere che spinge all'allontanamento, ad una ribellione che non da frutto, ad un'espressione brutale alla quale si conforma in vista di un esito necessariamente conflittuale in grado solamente di far deambulare, con una rabbia profonda e radicata, per gli spazi sparuti che la massa totale di quel reindirizzamento concedono, prevalentemente per un difetto non di metodo ma di cosciente perversione.

Spieghiamoci meglio.

Boris è un giovanotto di cui non si conosce nulla, accolto, come amico del figlio-erede Philip, presso una ricca famiglia di produttori vinicoli che vantano una tenuta sull'isola di Brehat, al largo della Bretagna, in occasione delle festività del 14 Luglio, durante le quali il delfino conserva l'abitudine di lanciare verso il mare fuochi d'artificio. Philip non è presente a casa, ufficialmente negli Stati Uniti, lontano in verità per incompatibilità con il padre dal quale, però, continua a ricevere fondi.

Fin dal suo arrivo, Boris conquista un ruolo all'interno del gruppo apparendo simpatico ed espansivo, fingendo disponibilità e blandendo la platea familiare con una frizzantezza che trasporta tutti in un vortice di entusiasmo. Apparentemente con naturalezza e senza metodologia, il giovane stringe la presa sulle persone con le quali ha a che fare creando uno spartiacque tra sé e l'immagine del figlio lontano, sfumando quest'ultima in una fotografia sbiadita nella mente e convogliando le opinioni verso una maggiore rilevanza degli aspetti meno edificanti di Philip in contrapposizione alla costruita ed ostentata affidabilità di sé. Il gioco di Boris, quindi, inizia a manifestarsi come un progressivo impoverimento della figura dell'altro, instillando nella memoria dei familiari un'evidenza che non si caratterizza su elementi falsati, poiché effettivamente il rampollo non vanta una carriera pregressa costituita da incorruttibilità, ma molto più semplicemente sfrutta queste inclinazioni in favore di una ripercussione che smuove le coscienze verso un fine stabilito.

Il nuovo venuto si presenta indossando un abito completamente bianco che, nell'assolata campagna isolana, splende in tutta la sua candidezza colpendo l'immaginario collettivo; il colore ostentato denota già come incipit della epifania dell'uomo una potente tendenza alla sicurezza, alla purezza d'intenti, all'energia positiva, ma dietro all'impeccabilità della mise, dietro al sorriso smagliante che viene sfoderato come approccio alle due figlie del padrone di casa, giace in agguato la mistificazione di un sé reale abituato a gestire gli altri secondo logiche d'interesse che si inoltrano nel terreno dell'ossessione. E le armi in gioco si caratterizzano per una violenza intrinseca, quasi mai esplicita, gestita attraverso atteggiamenti tuttavia tollerabili anche se ufficialmente deplorati, come la sfrontatezza, la sanguignità, l'indomabilità della carne che si esprime, per esempio, nella gloria di un corpo seminudo che si getta fra le onde, nell'accentramento degli sguardi su di sé, nella monopolizzazione accorta del tempo che scorre e delle abitudini familiari, nella quasi incapacità volitiva di richiedere il permesso.