Credere che l'opera di
Raffaello Baldini si possa catalogare nella categoria del comico
piuttosto che in quella del drammatico funge da grossolana riduzione
del suo contenuto valoriale. “La Fondazione” è, pienamente, una
rappresentazione funebre, durante la quale viene messa in scena
l'ombra della decadenza e l'amara rassegnazione ad una scomparsa
irrisolvibile. Dietro all'apparato di battute ed osservazioni
tragicomiche, coadiuvate da quel linguaggio dialettale (romagnolo)
sempre pronto a spronare la comunicazione ad essenzializzarsi ed a
precisare ciò che la lingua italiana lascia generico, fa capolino la
fine di un'era, entra in crisi la preudo-solidità di una forma della
mente che, fino a quel momento, ha retto le sorti mediocri della vita
del protagonista.
Visionando lo spettacolo,
la prima intuizione che colpisce a fondo è, indubbiamente, la
solitudine disperatamente negata e scansata di una stanza vuota colma
di una vacuità ambivalente, la quale mostra, con la delicatezza di
un simbolismo scarno e terribile, la moltitudine di cianfrusaglie
assiepate attorno al personaggio che si muove sulla scena.
Un individuo, solo al di
là della ribalta. Un uomo dei nostri giorni ma, al contempo, senza
una collocazione cronologica precisa, si aggira per il legno del
palcoscenico su cui prende forma l'abitazione di questi, luogo ameno,
calato sulla bilancia dell'indeterminatezza tra il nuovo e l'obsoleto
così da permettere, attraverso l'utilizzo di un vuoto ordinato sulla
base di logiche cromatiche e sonore perfettamente architettate e
concertate, il gioco rituale di una totale discrasia con il mondo,
obbligando lo spettatore a concentrare attenzione e cuore su
quest'altro universo che si racchiude nei confini della camera,
confini idealmente infranti da una serie di aperture-porte che
permettono alla scena di prolungare colore, voce, rumore e pensieri
verso un esterno che si mantiene comunque lontano, agente estraneo di
una mentalità in grado di sottarre spazio vitale al guscio
protettivo generatosi, negli anni, fra quelle mura.
Una casa, dicevamo, piena
di materiale conservato ed accumulato durante una vita. Ammennicoli
disparatissimi, testimoni di un'esistenza protratta all'ombra di una
disperazione retta da una ragione narrata, urlata, pianta e, perché
no, anche criticata da quest'uomo vestito con abiti d'altri tempi,
anziano nell'aspetto, vecchio nel portamento, che esiste proprio
attraverso ciò che si è portato dietro nel tempo, giorno dopo
giorno, fondando e sviluppando una sorta di teoria che
caratterizza il rapporto con quel patrimonio capace di unire
pavimento e soffitto, parete con parete; ma soprattutto,
l'invisibilità de facto degli oggetti raccontati, tastati ed
esaltati, assolve magistralmente alla funzione scenica di testimone
della completa fuga dalla realtà di questo individuo, che trascorre
le giornate fra i suoi beni la cui evanescenza in scena
rimanda direttamente all'idea della scomparsa, della morte,
dell'assenza, evidenziando proprio nell'atto della manipolazione di
ciò che per lo spettatore non c'è ma che, idealmente, si manifesta
effettivamente fra le mani del protagonista, la palpazione della
propria fine, della vacua consistenza dell'impegno protratto
nell'azione di raccolta, di immagazzinamento, di separazione, insomma
… di conservazione. Perché, come afferma l'uomo, verso le cose è
necessario provare una certa sensibilità; l'atto del gettare via
quel che non è più utile si ingrandisce fino a sfiorare i livelli
di una scelta crudele, follemente insensibile, e riduce gli oggetti
ad una pura merce di passaggio sulla quale la presenza dell'umano non
si impregna, non si esalta. Percui, le bottiglie in cantina si
trasformano in un mare su cui navigare con un moscone, una
barca sì … ma di quelle vecchie, che non costano nulla e sono
buttate lì, sulla spiaggia; imbarcazioni che per le altre persone
assumono il ruolo di immondizia, di legname forse da utilizzare per
altro rispetto all'uso originario, ma che per lui, contrariamente,
assurgono all'acmé, al momento più alto della propria
funzione proprio perché ricolme di quella esperienza operativa che
le ha condotte ad infarcirsi di salsedine ed acqua, a trattenere la
forza del rematore, a sbiadirsi per l'azione catartica del
sole a picco sulle teste. Oppure le cartine che avvolgevano le
arance, racchiuse in un cassetto e simbolo permanente della forza
della terra che hanno trattenuto e del desiderio dell'essere umano
che ne ha mangiato il contenuto. Oppure, ancora, i tappi del vino,
accostati gli uni agli altri e separati per tipologia, o le tavole di
compensato sulle quali dare forza al desiderio di creatività, o più
banalmente, alla brama di possedere opere pittoriche realizzate con
la ferma intenzione di non spendere un quattrino: - Perché comprare
un quadro, quando me lo posso fare da me? -, si domanda l'individuo
sul palcoscenico, appiccando però, dietro ad una questione
apparentemente banale e ridicola e mantenendosi nei limiti di
un'espressione piccolo-popolare ed ingenua, sia la scintilla della
creatività più pura e sia lo sprone a dare all'esistenza un
significato, in questo caso legato un po' follemente alle cose, ed in
particolare alle cose da eliminare.
Il pataca, come
lui stesso ogni tanto si definisce anche se in realtà non lo è
pienamente, vive per il suo patrimonio di chincaglierie; nella sua
convinzione, egli esiste e si perpetua eternamente e spiritualmente
in quelle, mentre le cose rispondono senza voce ma unicamente con la
propria presenza, la propria incombenza, girando attorno in un
turbine immobile a manifestare la pesantezza della crisi nella sua
anima e, tramite l'invisibilità, a inscenare l'inconsistenza di
quella scelta di vita e la terrificante ipotesi della solitudine
radicale: il vuoto.
Per quest'uomo c'è solo
pietà e amore e, perché no, anche alcune condivisioni. Il suo
spirito ha semplicemente voglia di non essere dimenticato
dall'umanità, come già si sono permessi di fare la moglie, che lo
ha abbandonato, i parenti, che sono andati via, e la gente del paese,
che lo guarda con divertita compassione. Nella sua mente si profila
addirittura l'idea di una “Fondazione” che raccolga il suo tesoro
e lo protegga nel tempo dalla distruzione, permettendo alla memoria
ed all'anima stessa dell'individuo di durare per sempre, incarnandosi
nel metallo, nella carta, nel sughero, e proiettandosi negli occhi
delle persone.
L'interpretazione di
Ivano Marescotti è esemplare. Il suo corpo si tramuta in icona,
coprendo l'ora e mezza circa di spettacolo con una presenza scenica
impressionante e perfetta. I suoi gesti sono misurati sulla
dimensione di oggetti che non esistono se non nell'elaborazione della
sua maestria attoriale, generando fra le mani un crogiolo di materia
che emerge dal nulla fino ad assumere forma effettiva, fino ad istillare nella mente dello spettatore il desiderio di levarsi dal
posto e raccogliere, dalla stretta dell'attore, una scatola di
scarpe, un fiasco di vino, un pezzo insomma di quel mondo di fantasia
che diviene tangibile solo oltre la soglia della ribalta, portandolo
indietro con sé, verso il lato dell'universo nel quale esperienziamo
la nostra esistenza della quale, l'essere umano sul palco, non è che
un riflesso calato in quella meravigliosa festa dell'onirico che è
il teatro.
italyhastodie
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