mercoledì 24 ottobre 2012

"La Fondazione" (2008) di Raffaello Baldini. Rappresentazione teatrale: Ivano Marescotti (2012). Regia: Valerio Binasco

Credere che l'opera di Raffaello Baldini si possa catalogare nella categoria del comico piuttosto che in quella del drammatico funge da grossolana riduzione del suo contenuto valoriale. “La Fondazione” è, pienamente, una rappresentazione funebre, durante la quale viene messa in scena l'ombra della decadenza e l'amara rassegnazione ad una scomparsa irrisolvibile. Dietro all'apparato di battute ed osservazioni tragicomiche, coadiuvate da quel linguaggio dialettale (romagnolo) sempre pronto a spronare la comunicazione ad essenzializzarsi ed a precisare ciò che la lingua italiana lascia generico, fa capolino la fine di un'era, entra in crisi la preudo-solidità di una forma della mente che, fino a quel momento, ha retto le sorti mediocri della vita del protagonista.

Visionando lo spettacolo, la prima intuizione che colpisce a fondo è, indubbiamente, la solitudine disperatamente negata e scansata di una stanza vuota colma di una vacuità ambivalente, la quale mostra, con la delicatezza di un simbolismo scarno e terribile, la moltitudine di cianfrusaglie assiepate attorno al personaggio che si muove sulla scena.
Un individuo, solo al di là della ribalta. Un uomo dei nostri giorni ma, al contempo, senza una collocazione cronologica precisa, si aggira per il legno del palcoscenico su cui prende forma l'abitazione di questi, luogo ameno, calato sulla bilancia dell'indeterminatezza tra il nuovo e l'obsoleto così da permettere, attraverso l'utilizzo di un vuoto ordinato sulla base di logiche cromatiche e sonore perfettamente architettate e concertate, il gioco rituale di una totale discrasia con il mondo, obbligando lo spettatore a concentrare attenzione e cuore su quest'altro universo che si racchiude nei confini della camera, confini idealmente infranti da una serie di aperture-porte che permettono alla scena di prolungare colore, voce, rumore e pensieri verso un esterno che si mantiene comunque lontano, agente estraneo di una mentalità in grado di sottarre spazio vitale al guscio protettivo generatosi, negli anni, fra quelle mura.
Una casa, dicevamo, piena di materiale conservato ed accumulato durante una vita. Ammennicoli disparatissimi, testimoni di un'esistenza protratta all'ombra di una disperazione retta da una ragione narrata, urlata, pianta e, perché no, anche criticata da quest'uomo vestito con abiti d'altri tempi, anziano nell'aspetto, vecchio nel portamento, che esiste proprio attraverso ciò che si è portato dietro nel tempo, giorno dopo giorno, fondando e sviluppando una sorta di teoria che caratterizza il rapporto con quel patrimonio capace di unire pavimento e soffitto, parete con parete; ma soprattutto, l'invisibilità de facto degli oggetti raccontati, tastati ed esaltati, assolve magistralmente alla funzione scenica di testimone della completa fuga dalla realtà di questo individuo, che trascorre le giornate fra i suoi beni la cui evanescenza in scena rimanda direttamente all'idea della scomparsa, della morte, dell'assenza, evidenziando proprio nell'atto della manipolazione di ciò che per lo spettatore non c'è ma che, idealmente, si manifesta effettivamente fra le mani del protagonista, la palpazione della propria fine, della vacua consistenza dell'impegno protratto nell'azione di raccolta, di immagazzinamento, di separazione, insomma … di conservazione. Perché, come afferma l'uomo, verso le cose è necessario provare una certa sensibilità; l'atto del gettare via quel che non è più utile si ingrandisce fino a sfiorare i livelli di una scelta crudele, follemente insensibile, e riduce gli oggetti ad una pura merce di passaggio sulla quale la presenza dell'umano non si impregna, non si esalta. Percui, le bottiglie in cantina si trasformano in un mare su cui navigare con un moscone, una barca sì … ma di quelle vecchie, che non costano nulla e sono buttate lì, sulla spiaggia; imbarcazioni che per le altre persone assumono il ruolo di immondizia, di legname forse da utilizzare per altro rispetto all'uso originario, ma che per lui, contrariamente, assurgono all'acmé, al momento più alto della propria funzione proprio perché ricolme di quella esperienza operativa che le ha condotte ad infarcirsi di salsedine ed acqua, a trattenere la forza del rematore, a sbiadirsi per l'azione catartica del sole a picco sulle teste. Oppure le cartine che avvolgevano le arance, racchiuse in un cassetto e simbolo permanente della forza della terra che hanno trattenuto e del desiderio dell'essere umano che ne ha mangiato il contenuto. Oppure, ancora, i tappi del vino, accostati gli uni agli altri e separati per tipologia, o le tavole di compensato sulle quali dare forza al desiderio di creatività, o più banalmente, alla brama di possedere opere pittoriche realizzate con la ferma intenzione di non spendere un quattrino: - Perché comprare un quadro, quando me lo posso fare da me? -, si domanda l'individuo sul palcoscenico, appiccando però, dietro ad una questione apparentemente banale e ridicola e mantenendosi nei limiti di un'espressione piccolo-popolare ed ingenua, sia la scintilla della creatività più pura e sia lo sprone a dare all'esistenza un significato, in questo caso legato un po' follemente alle cose, ed in particolare alle cose da eliminare.

Il pataca, come lui stesso ogni tanto si definisce anche se in realtà non lo è pienamente, vive per il suo patrimonio di chincaglierie; nella sua convinzione, egli esiste e si perpetua eternamente e spiritualmente in quelle, mentre le cose rispondono senza voce ma unicamente con la propria presenza, la propria incombenza, girando attorno in un turbine immobile a manifestare la pesantezza della crisi nella sua anima e, tramite l'invisibilità, a inscenare l'inconsistenza di quella scelta di vita e la terrificante ipotesi della solitudine radicale: il vuoto.
Per quest'uomo c'è solo pietà e amore e, perché no, anche alcune condivisioni. Il suo spirito ha semplicemente voglia di non essere dimenticato dall'umanità, come già si sono permessi di fare la moglie, che lo ha abbandonato, i parenti, che sono andati via, e la gente del paese, che lo guarda con divertita compassione. Nella sua mente si profila addirittura l'idea di una “Fondazione” che raccolga il suo tesoro e lo protegga nel tempo dalla distruzione, permettendo alla memoria ed all'anima stessa dell'individuo di durare per sempre, incarnandosi nel metallo, nella carta, nel sughero, e proiettandosi negli occhi delle persone.

L'interpretazione di Ivano Marescotti è esemplare. Il suo corpo si tramuta in icona, coprendo l'ora e mezza circa di spettacolo con una presenza scenica impressionante e perfetta. I suoi gesti sono misurati sulla dimensione di oggetti che non esistono se non nell'elaborazione della sua maestria attoriale, generando fra le mani un crogiolo di materia che emerge dal nulla fino ad assumere forma effettiva, fino ad istillare nella mente dello spettatore il desiderio di levarsi dal posto e raccogliere, dalla stretta dell'attore, una scatola di scarpe, un fiasco di vino, un pezzo insomma di quel mondo di fantasia che diviene tangibile solo oltre la soglia della ribalta, portandolo indietro con sé, verso il lato dell'universo nel quale esperienziamo la nostra esistenza della quale, l'essere umano sul palco, non è che un riflesso calato in quella meravigliosa festa dell'onirico che è il teatro.


italyhastodie

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