Lorenzo
e Bice, due nomi che suonano all'intelletto un po' datati e consunti
dal tempo; marito e moglie, incorniciati fra le assi di un quadro a
tinte fosche e vermiglie, incarnano prima di tutto la logica di un
gioco perverso che avvinghia l'essenza della loro vita matrimoniale
immergendo il livello di relazione affettiva, sessuale e conviviale,
fra le spire di un complesso rituale erotico-pruriginoso alla ricerca
di un'eccitazione che stenta a sollevarsi senza artifici, anche fra i
risvolti inquietanti della violenza, della sopraffazione, della
morte.
Entrambi
impresari funebri, nonché dotati di un occhio cinico e disincantato
sulla morte tanto da discuterne in termini affaristici e di bilancio,
i protagonisti conducono la propria esistenza in una dimora dove il
mobilio si conforma idealmente sul modello delle casse per i defunti,
proiezione più che altro della valenza della loro intesa sessuale
che una prolungata astinenza per motivi fisiologici del marito ha
trasformato in un gioco sterile come un cadavere ma, comunque,
morboso, triviale e tortuosamente proiettato alla volta della
situazione magica in grado di scatenare il desiderio erettivo. La
dipartita inguinale dell'uomo si contrappone ad un'eccessiva carica
ninfomane da parte della donna che, nell'attuazione di una manovra
che possa titillare le fantasie, non disdegna la pesantezza
dell'insulto, l'ipotesi dello stupro, la minaccia verosimile del
soccombere sotto l'azione di una qualche sostanza che avveleni il
corpo e ne tragga lentamente la vita.
Il
sesso si sposa con la morte, quindi, in un miscuglio che attraversa
tutto il palcoscenico, tratteggiando i mobili, ispessendo
l'illuminazione, relegando l'apparato cromatico al connubio fra rosso
e nero e coinvolgendo così passione e tenebra in una carola che
leviga i confini dei danzatori confondendone le mani, i piedi, i
corpi, trascinando in questo turbine ogni oggetto presente nella
stanza come se il punto focale, rappresentato dall'incontro-scontro
tra i due coniugi, sia il cuore dirompente di un'energia che
assomiglia fortemente ad un'agonia.
Un
gioco, dunque. Dall'inizio alla fine, l'impressione è quella di una
spasmodica messa in scena di un delitto reciproco e di una disarmante
mancanza di sincerità e di schiettezza. Marito e moglie mettono a
nudo, alle volte segretamente ed alle volte pubblicamente, i tratti
di una taciuta deficienza dell'altro, come l'impotenza di Lorenzo
sventolata ai quattro venti oppure la presunta frigidità di Bice in
ragione della scarsità di desiderio dell'uomo; una sottile linea di
demarcazione fra il senso del tragico e del comico di certe battute
apparentemente paradossali apre alla comprensione dell'odio di fondo
che genera mostri fra le pieghe della vita di coppia, urtando contro
l'idea di spontaneità che dovrebbe essere propria del patrimonio
matrimoniale e ponendo in rilievo la fragilità di quella struttura
sociale minata dalla barocca costruzione sensuale. Afferrati dalla
mano di questo canovaccio che li trasforma da persone in personaggi
di una claustrofobica finzione, la serata si dipana fra melodramma e
tragedia, fra umorismo nero e masochismo psico-fisico, scandendosi
nei rintocchi di un orologio e spalancando davanti agli occhi dello
spettatore una parete sulla quale viene disegnata la marcescenza di
un matrimonio borghese privato dei veli domestici che celano al mondo
la falsità di una quotidiana educazione, svelando i retroscena di
una concupiscenza che va oltre l'amore, che supera anche la
convenzione, fondando le ragioni nevrotiche di una regola che connota
l'intimità dei due sposi sostituendosi al resto, soppiantando
certamente l'innocenza e declassando definitivamente il mutuo
soccorso attraverso l'ausilio estremo del crimine, dell'assassinio
mediante l'idea del veleno versato nel caffé che potrebbe
provocare la fine o dell'uno o dell'altra ma che, al culmine della
rappresentazione, si mostra nella sua veste originale, e cioè di
mezzo irreale ma comunque stimolante per la libidine.
Le
dita di Bice che stringono una banana turgida. Il pugno di Lorenzo
che racchiude una mela. Virgulto fallico la prima, peccato che castra
la libertà umana la seconda. Due frutti che si contrappongono, che
vengono ostesi a minaccia, accarezzati, tastati e poi, ad un certo
punto, scagliati lontano, oltre la scena, al di là della camera a
simboleggiare il sentimento instabile e ribollente provato dai
coniugi, quel detestare ed amare che li spinge ad insultarsi, a
provocarsi, a complimentarsi l'un con l'altro per una trovata volgare
particolarmente gustosa. Il talamo spigoloso come una bara, su cui le
lenzuola paiono sudari ed i cuscini hanno tutta l'aria di poggiatesta
sui quali depositare corone di fiori. Una scacchiera utilizzata
solamente dal marito, il quale si confronta ludicamente con sé
stesso come se i giochi con la sua compagna fossero oramai
terminati da tempo. E poi le confessioni nei momenti di assenza
dell'altro, dove pare che una sorta di sincerità scaturisca a
frammenti dall'animo assuefatto dal fango di quelle pratiche
asfissianti.
Presso
il Teatro Dehon di Bologna, Guido Ferrarini ed Alida Piersanti hanno
dato vita ad una rappresentazione convincente, incontrandosi in una
concertazione ben articolata dove lo spazio scenico viene certamente
riempito con intensità e vibrazione.
Un
apporto sonoro un po' debole, da migliorare magari con un ticchettio
dell'orologio più convincente, accostato ad una scelta scenografica
molto interessante, sebbene forse un poco disordinata.
Uno
spettacolo indubbiamente da vedere.
italyhastodie
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