mercoledì 31 ottobre 2012

"Stasera arsenico!" di Carlo Terron. Rappresentazione teatrale: Guido Ferrarini, Alida Piersanti. Regia: Mario Mattia Giorgetti


Lorenzo e Bice, due nomi che suonano all'intelletto un po' datati e consunti dal tempo; marito e moglie, incorniciati fra le assi di un quadro a tinte fosche e vermiglie, incarnano prima di tutto la logica di un gioco perverso che avvinghia l'essenza della loro vita matrimoniale immergendo il livello di relazione affettiva, sessuale e conviviale, fra le spire di un complesso rituale erotico-pruriginoso alla ricerca di un'eccitazione che stenta a sollevarsi senza artifici, anche fra i risvolti inquietanti della violenza, della sopraffazione, della morte.

Entrambi impresari funebri, nonché dotati di un occhio cinico e disincantato sulla morte tanto da discuterne in termini affaristici e di bilancio, i protagonisti conducono la propria esistenza in una dimora dove il mobilio si conforma idealmente sul modello delle casse per i defunti, proiezione più che altro della valenza della loro intesa sessuale che una prolungata astinenza per motivi fisiologici del marito ha trasformato in un gioco sterile come un cadavere ma, comunque, morboso, triviale e tortuosamente proiettato alla volta della situazione magica in grado di scatenare il desiderio erettivo. La dipartita inguinale dell'uomo si contrappone ad un'eccessiva carica ninfomane da parte della donna che, nell'attuazione di una manovra che possa titillare le fantasie, non disdegna la pesantezza dell'insulto, l'ipotesi dello stupro, la minaccia verosimile del soccombere sotto l'azione di una qualche sostanza che avveleni il corpo e ne tragga lentamente la vita.
Il sesso si sposa con la morte, quindi, in un miscuglio che attraversa tutto il palcoscenico, tratteggiando i mobili, ispessendo l'illuminazione, relegando l'apparato cromatico al connubio fra rosso e nero e coinvolgendo così passione e tenebra in una carola che leviga i confini dei danzatori confondendone le mani, i piedi, i corpi, trascinando in questo turbine ogni oggetto presente nella stanza come se il punto focale, rappresentato dall'incontro-scontro tra i due coniugi, sia il cuore dirompente di un'energia che assomiglia fortemente ad un'agonia.

sabato 27 ottobre 2012

"La piccola ombra" (2002) di Banana Yoshimoto

"Vidi mio marito che si era infilato sotto le coperte al mio fianco 
e si accingeva a dormire.
[...] Pensai alle pieghe del suo collo, 
alle unghie corte della mano che aveva fuori dalle lenzuola,
all'attaccatura dei capelli vicino all'orecchio [...],
alle linee robuste della sua schiena squadrata.
[...] Se anche fossi morta in quel giorno, 
lui avrebbe continuato a vivere nell'appartamento 
in cui avevamo abitato insieme. 
In quel soggiorno intriso in ogni angolo della mia presenza, 
avrebbe preparato il caffè ogni mattina.
[...] Se anche io non ci fossi più stata,
se anche una sola parola 
non fosse più stata proferita, [...]
lui avrebbe continuato a preparare il suo ottimo caffè [...]."
(Banana Yoshimoto, La piccola ombra, Feltrinelli, pag. 38)  
Personaggi principali
  • Differenti personaggi prevalentemente di origine giapponese, alcuni senza nomi specifici
Ambientazione
  • Argentina, Buenos Aires (e dintorni), ai nostri giorni
  • Giappone, Tōkyō

L'incontro con la morte non è mai un evento da gestire con facilità. L'illusione che l'essere umano tenta spesso di costruire di fronte agli occhi nasce dall'esigenza di mascherare l'inaccettabilità di un accadimento che, nella sua complessità, scosta l'andirivieni del quotidiano con un'invadenza talmente radicale da causare certamente una momentanea rottura, per l'appunto, con l'usuale.
Come spesso accade per i personaggi tracciati da Banana Yoshimoto, anche in questa serie di racconti le persone si confrontano con l'idea della morte, e prevalentemente con una sorta di abbandono di sé nel gorgo delle particolari vicissitudini dell'esistenza nelle quali la defezione causata dalla dipartita stringe un cappio serico attorno all'addome, sfiorando la pelle con una carezza inquietante.

La terra di Argentina ed il calore di Buenos Aires fanno da sfondo alle vicende narrate, con quelle vie irrorate dal sole e dai passanti, da una energia che attraversa il giorno e la notte con una potenza in grado di dilatarsi e contrarsi, avvolgendo i protagonisti pur rimanendo costantemente fissi nella riproduzione di un'identità che funge da icona, stabile e significativa ma indipendente dagli stati d'animo particolari. Una massa pressoché bi-dimensionale sulla quale le azioni ed i pensieri si riflettono come punti focali marginalizzando l'arredo urbano e relegandolo in una sorta di scrigno dove, eventualmente, reperire solo piccoli ragguagli dei motivi di disagio provati.

La morte arriva e si insinua fra gli obblighi della giornata, entrando nell'agenda degli impegni senza essere prevista ed aggiungendo un invito al ricordo, alla preghiera, alla rivalutazione di alcune sintesi fatte proprie nei rapporti con persone lontane e vicine, con il rispettivo mestiere. L'eleganza e la delicatezza della scrittura di Banana Yoshimoto ci introduce nel mistero di una relazione con l'aspetto funebre concepito nei termini di frangente naturale dell'esistenza, di sfaccettatura della vita da accogliere però come fonte di squilibrio momentaneo. I personaggi a due dimensioni, simili alle antiche stampe cinesi e giapponesi, passano sulla scena totalmente composti da pensiero e sentimento, ed i loro corpi quasi si sfumano in questa transazione disperdendosi in un alone che regge l'intero apparato emotivo; sui visi, un'espressione che in genere non muta si distorce solo per generare relazioni simboliche con l'evento scatenante, come del sangue colato dal naso durante l'intensità di un'orazione in memoria di un defunto e l'idea del corpo dilaniato di quel morto dopo un incidente automobilistico, oppure il parallelismo tra l'architettura delle tombe di un cimitero visitato e le dimensioni di un'istallazione artistica, a forma di abitazione in miniatura, visitata anni prima con la madre uccisa da un male incurabile, o ancora la morte di un figlio per aborto spontaneo legata alla solidità in crisi di un matrimonio che riponeva proprio in quella nuova nascita l'ipotesi di una rinnovata stabilità.

mercoledì 24 ottobre 2012

"La Fondazione" (2008) di Raffaello Baldini. Rappresentazione teatrale: Ivano Marescotti (2012). Regia: Valerio Binasco

Credere che l'opera di Raffaello Baldini si possa catalogare nella categoria del comico piuttosto che in quella del drammatico funge da grossolana riduzione del suo contenuto valoriale. “La Fondazione” è, pienamente, una rappresentazione funebre, durante la quale viene messa in scena l'ombra della decadenza e l'amara rassegnazione ad una scomparsa irrisolvibile. Dietro all'apparato di battute ed osservazioni tragicomiche, coadiuvate da quel linguaggio dialettale (romagnolo) sempre pronto a spronare la comunicazione ad essenzializzarsi ed a precisare ciò che la lingua italiana lascia generico, fa capolino la fine di un'era, entra in crisi la preudo-solidità di una forma della mente che, fino a quel momento, ha retto le sorti mediocri della vita del protagonista.

Visionando lo spettacolo, la prima intuizione che colpisce a fondo è, indubbiamente, la solitudine disperatamente negata e scansata di una stanza vuota colma di una vacuità ambivalente, la quale mostra, con la delicatezza di un simbolismo scarno e terribile, la moltitudine di cianfrusaglie assiepate attorno al personaggio che si muove sulla scena.
Un individuo, solo al di là della ribalta. Un uomo dei nostri giorni ma, al contempo, senza una collocazione cronologica precisa, si aggira per il legno del palcoscenico su cui prende forma l'abitazione di questi, luogo ameno, calato sulla bilancia dell'indeterminatezza tra il nuovo e l'obsoleto così da permettere, attraverso l'utilizzo di un vuoto ordinato sulla base di logiche cromatiche e sonore perfettamente architettate e concertate, il gioco rituale di una totale discrasia con il mondo, obbligando lo spettatore a concentrare attenzione e cuore su quest'altro universo che si racchiude nei confini della camera, confini idealmente infranti da una serie di aperture-porte che permettono alla scena di prolungare colore, voce, rumore e pensieri verso un esterno che si mantiene comunque lontano, agente estraneo di una mentalità in grado di sottarre spazio vitale al guscio protettivo generatosi, negli anni, fra quelle mura.

martedì 23 ottobre 2012

"Ad ogni nuova stagione" (2012) di Michele Ottoveggio

"Mentre gli altri discorrevano e crocchiavano fra i denti prelibatezze, si ritrasse dalla sedia lentamente, aggirando alle spalle i commensali e portandosi fino alla finestra, incuriosito. Sorvolando con lo sguardo sui tetti, si portò affascinato e un po' spaventato fino all'acqua [...]. Assorto, non si accorse di come alle spalle lo stesse raggiungendo il figlio più grande della coppia di amici, un bambino della sua stessa età, il quale lo fece sobbalzare quando gli pose la mano sulla spalla per richiamare su di sé l'impegno dell'altro fanciullo; ed ora era lì, accanto al Marchesi, con un'espressione da gatto in difesa, fermo ad osservare sodo, anche lui, le cose là fuori. Poi, alzando un braccio, indicò al compagno le strisce di tenebra che attraversavano sfasate le acque, e disse, con un fare di esperienza e rassegnazione singolare per un ometto dei suoi anni, alcune parole che fecero una strana impressione al nostro, ma che all'epoca non capì bene; aveva l'abitudine di gettare sassi ogni tanto in quelle fenditure, per gioco, ma a differenza che nelle altre zone, essi si perdevano e non era possibile guardare, anche nell'acqua bassa, 
i tragitti discendenti delle pietruzze verso il fondale ghiaioso.
Il buio, concluse con candore, portava via le cose, e non le restituiva più."
(Michele Ottoveggio, Ad ogni nuova stagione, pag.92)
Personaggi principali
  • Giulio Marchesi : protagonista, impiegato d'ufficio presso un'azienda
  • Anna Marchesi : moglie del protagonista
  • Raffaele Lelli : collega del Marchesi
  • Guido Mori : archivista, altro collega del Marchesi
  • Malacchi : capoufficio del protagonista
Ambientazione
  • La vicenda si svolge in una città qualsiasi ed in un tempo non specificato. Comunque, i tratti urbani sono riconoscibili in alcuni ambiti della città di Bologna.

Credere che in questo libro vengano narrati eventi dai quali attendersi sorpresa e pathos è un inganno dal quale ben guardarsi. Fra le pagine che seguiranno, non ci si aspetti di trovare fatti con principio e fine ben delineati, o avventure entusiasmanti, o meglio ancora combattimenti, massime sagge ed universali, epiche bevute e crolli di imperi.
Eppure, nella sua semplicità, un mondo intero va disgregandosi, perdendo stabilità sulle deboli colonne che ne hanno sostenuto il peso durante gli anni.
Questo è un romanzo di inganni, un tentativo di recepire la presenza di una strada diversa in mezzo alle sterpaglie che una vita piatta e negativamente usuale sa imporre sulle speranze dell'uomo. Un romanzo di bugie, dicevamo, un racconto in cui la figura più innocua per antonomasia, quella dell'impiegato, si lega piano piano ad una coscienza maggiore, attraversando, nel silenzio e nello strepito muto di un grido senza suoni, il collasso della propria ragione occupazionale ed emotiva, nonché l'ipotesi di una riqualificazione più autonoma partendo esattamente dalle macerie di quel suo cosmo ristretto e già di per sé segretamente pernicioso.
L'argomento trattato nel testo verte fondamentalmente su problematiche connesse all'etica del lavoro ed alla libertà umana, lette però attraverso la lente d'ingrandimento di una narrazione con tratti di analisi filosofica, teologica e demonologica, in particolar modo dando ampio spazio al rapporto tra la quotidianità delle piccole cose ed un male di vivere i cui percorsi stentano ad essere compresi appieno, soprattutto laddove le esigenze del male, altro tratto distintivo dell'argomentazione, coinvolgono le prese di posizione dei vari personaggi proiettandole in un'orizzonte alle volte indecifrabile, alle volte troppo prevedibile.
Il protagonista, Giulio Marchesi, e coloro che lo circondano, si confronteranno con i residui di una vita vissuta all'insegna della dimenticanza di sé, del compromesso, e proprio da questo processo si svilupperà una sorta di presa di parte che verrà recepita in gradi differenti.
Durante un periodo di otto giorni, coincidente con l'ultima settimana di lavoro del personaggio principale prima del pensionamento (più un giorno culminante di reazione e sintesi), crescerà in lui una sensibilità rinnovata, abbandonata dopo la giovinezza, relativamente alla propria vita ed alle sue peculiarità che, a causa di diverse scelte, vennero accantonate e sostituite con una mediocrità impiegatizia. L'azienda presso la quale il protagonista è occupato comincerà ad essere percepita come un organismo vivo e vorace, nascosto dietro ai paraventi di una rispettabilità e tutela giuridica, di una solidità economica, costituita però da una neutralità morale che si riflette anche sul piano estetico. Marchesi intuisce un cambiamento, come se una forza esterna lo avesse voluto mettere a conoscenza di segreti mostrando il volto autentico della negatività presente fra quelle mura, estrapolandole dalla loro evanescenza e portandole ad un livello più tangibile attraverso la manifestazione di forme ed individui deformi, di influenze più o meno coatte, di rituali distruttivi come la conservazione per lungo tempo di documenti con il solo scopo apparente di perseverare nella loro distruzione.

sabato 20 ottobre 2012

"Professione poliziotto" (1978) di Carlo Castellaneta

La vista di quello sconosciuto che si era tolto la vita con un cappio al collo,
quel viso dai capelli bianchi stravolto in una smorfia di dolore,
lo offendeva.
Come se Franco fosse anch'egli in qualche modo responsabile.
Lui e tutto il resto della città sprofondata nel sonno.
A che serviva catturare un ladro, se non si riusciva a salvare la vita di un uomo onesto?
Che senso aveva il suo mestiere di poliziotto,
di tutore dell'ordine,
se non era possibile impedire il disordine più grande provocato dal bisogno?”

(Castellaneta Carlo, Professione poliziotto, Salani, pag. 112)







Personaggi principali
  • Francesco De Roberto : giovane agente di polizia
  • Beppe Spatola : agente di polizia e miglior amico di Francesco
  • Irene : infermiera e fidanzata di Francesco
  • Nicola : fratello di Francesco
Ambientazione
  • Italia, Milano, fine anni '70
  • Italia, Lucera (FG)

La vita letteraria così prolifica di Carlo Castellaneta, pur avendo regalato al suo pubblico di lettori opere ben più proficue da un punto di vista narrativo e concettuale, non nasconde un'ennesima parentesi di amarezza che si manifesta in modo interessante fra le pagine di questo romanzo.
La città, in primo luogo, quella Milano di fine anni settanta, nella quale si articolano i frammenti di vita dei personaggi, viene delineata nelle sue caratteristiche essenziali come una presenza statica e lontana, immersa in quella tipica atmosfera che tanto il cinema di quegli anni ha voluto mantenere al contempo di sfondo ed in primo piano, quasi a raffrontare ad essa una sorta di svuotamento dello spirito relazionale e dialettico delle persone. Un agglomerato urbano, dunque, minato da un calore estivo asfissiante oppure da un freddo che paralizza i movimenti, un gelo diffuso dalla pioggia sottile e tagliente di un autunno all'apice della sua portata che colma i dintorni della condensa del fiato, fra distese di periferia punteggiata da caseggiati popolari e magazzini confusi nella notte, zone erbose ancora non soppresse dal sopravvento edilizio e locali notturni frequentati da una malavita di antica e recente evoluzione, alle volte confusa nei cortei studenteschi ed operai che variegavano la vita sociale e politica cittadina di quegli anni.

Un giovane poliziotto, fresco di corso; una guardia fra le tante che porta per nome un diminutivo, Franco, più immediato rispetto a Francesco, e per cognome un De Roberto che proviene dal sud d'Italia, da una Puglia ferma nel tempo, da una città come quella di Lucera descritta dal protagonista stesso come in decadenza, le cui pietre nobili e solenni mostravano soltanto il riflesso di sé stesse e dove un'architettura incontrollata di speculazione aveva già provveduto a minacciarne l'integrità con costruzioni incomplete ed anonime. Un ragazzo vestito dalla divisa blu, di stanza presso il Raggruppamento di pubblica sicurezza insieme ad una moltitudine di colleghi, fuggito in fondo da una situazione di precarietà e buttato in un mondo come quello dell'ordine pubblico povero ed insufficiente di mezzi, nel quale il lavoro si connoterà sostanzialmente di attività che lo frustreranno, che lo tradiranno nei principi, che lo annoieranno, lui che desidera ardentemente una vera vita da poliziotto, sulla strada, con il mitra imbracciato, intento a controllare e vigilare, a seguire movimenti sospetti e raggranellare opportunità di promozione con operazioni al limite di una spettacolarità all'italiana. In lui si apre l'eco della celebre invettiva pasoliniana che dava sfogo alla voce di una generazione di meridionali, dimenticati dalle istituzioni, e che nelle piazze si trovava sul fronte opposto rispetto a quello animato da una schiatta di borghesia che, a differenza della prima, poteva contare largamente sull'apporto economico per gli studi, disertati in funzione di una ribellione dettata, talune volte, dalla noia dell'abbienza; e mentre quella presenza schernita dai dimostranti, colpita da monetine, bulloni e da insulti legati alla sua provenienza popolare e povera, assumeva su di sé la connotazione di una struttura topica che avrebbe partecipato alla realizzazione di quel rito di piazza che si sarebbe imposto come modello radicale di scontro sociale, come specchio del paese più che meramente poliziesco.

giovedì 18 ottobre 2012

"Il gioco di Boris" (2006) di Serge Joncour

 "Fu in quel momento che senza chiedere niente a nessuno
Boris prese una sedia e si sedette. Riabbassò per un istante gli occhiali,
Julie si vide in un riflesso, un'immagine che l'attraversò come uno sconcerto,
si scoprì inebetita, subito si riprese. Quella sicurezza, quel modo di non chiedere,
la mancanza totale di adesione al suo piccolo gioco le piacevano,
la emozionava che un uomo possedesse quel genere di impertinenza.
Assaporava già il godimento sottile, la vittoria di riuscire a destabilizzare quel tipo,
di metterlo a disagio in un modo o nell'altro.”

(Joncour Serge, Il gioco di Boris, Fazi Ed., 2006, pag. 14)


Personaggi principali
  • Boris :  affascinante ed ambiguo conoscente di Philip, figlio di una ricca famiglia produttrice di vino
  • Philip : rampollo di possidenti terrieri, distante dagli interessi della famiglia e con precedenti penali
  • André-Pierre : cognato di Philip
  • Julie : sorella minore di Philip
  • Vanessa : altra sorella di Philip, sposata con André-Pierre
  • Padre e madre di Philip
  • I due figli di André-Pierre e Vanessa
Ambientazione
  • Francia (Bretagna) - Isola di Brehat – al nostro tempo

Il romanzo di Serge Joncour discorre a proposito di dèmoni, dèmoni che sovrintendono la persistenza della violenza legata alla sopraffazione, al controllo, ad una mimesi che destruttura l'identità dell'uomo mutandolo in un'evidente appendice della fonte da cui trae nuova ragione. E questa ragione, questa motivazione che si sostituisce alla libera iniziativa come programma fondamentale dell'esistenza, si sporca di una ritrosia del vivere che spinge all'allontanamento, ad una ribellione che non da frutto, ad un'espressione brutale alla quale si conforma in vista di un esito necessariamente conflittuale in grado solamente di far deambulare, con una rabbia profonda e radicata, per gli spazi sparuti che la massa totale di quel reindirizzamento concedono, prevalentemente per un difetto non di metodo ma di cosciente perversione.

Spieghiamoci meglio.

Boris è un giovanotto di cui non si conosce nulla, accolto, come amico del figlio-erede Philip, presso una ricca famiglia di produttori vinicoli che vantano una tenuta sull'isola di Brehat, al largo della Bretagna, in occasione delle festività del 14 Luglio, durante le quali il delfino conserva l'abitudine di lanciare verso il mare fuochi d'artificio. Philip non è presente a casa, ufficialmente negli Stati Uniti, lontano in verità per incompatibilità con il padre dal quale, però, continua a ricevere fondi.

Fin dal suo arrivo, Boris conquista un ruolo all'interno del gruppo apparendo simpatico ed espansivo, fingendo disponibilità e blandendo la platea familiare con una frizzantezza che trasporta tutti in un vortice di entusiasmo. Apparentemente con naturalezza e senza metodologia, il giovane stringe la presa sulle persone con le quali ha a che fare creando uno spartiacque tra sé e l'immagine del figlio lontano, sfumando quest'ultima in una fotografia sbiadita nella mente e convogliando le opinioni verso una maggiore rilevanza degli aspetti meno edificanti di Philip in contrapposizione alla costruita ed ostentata affidabilità di sé. Il gioco di Boris, quindi, inizia a manifestarsi come un progressivo impoverimento della figura dell'altro, instillando nella memoria dei familiari un'evidenza che non si caratterizza su elementi falsati, poiché effettivamente il rampollo non vanta una carriera pregressa costituita da incorruttibilità, ma molto più semplicemente sfrutta queste inclinazioni in favore di una ripercussione che smuove le coscienze verso un fine stabilito.

Il nuovo venuto si presenta indossando un abito completamente bianco che, nell'assolata campagna isolana, splende in tutta la sua candidezza colpendo l'immaginario collettivo; il colore ostentato denota già come incipit della epifania dell'uomo una potente tendenza alla sicurezza, alla purezza d'intenti, all'energia positiva, ma dietro all'impeccabilità della mise, dietro al sorriso smagliante che viene sfoderato come approccio alle due figlie del padrone di casa, giace in agguato la mistificazione di un sé reale abituato a gestire gli altri secondo logiche d'interesse che si inoltrano nel terreno dell'ossessione. E le armi in gioco si caratterizzano per una violenza intrinseca, quasi mai esplicita, gestita attraverso atteggiamenti tuttavia tollerabili anche se ufficialmente deplorati, come la sfrontatezza, la sanguignità, l'indomabilità della carne che si esprime, per esempio, nella gloria di un corpo seminudo che si getta fra le onde, nell'accentramento degli sguardi su di sé, nella monopolizzazione accorta del tempo che scorre e delle abitudini familiari, nella quasi incapacità volitiva di richiedere il permesso.